Quando la legge prevale sul bisogno: una clamorosa sentenza riaccende il dibattito su pensioni di reversibilità e diritti dei superstiti.
Arriva un colpo durissimo per chi conta(va) sull’assegno di reversibilità come unica ancora di salvezza. La Cassazione ha dato ragione all’INPS in una vicenda che riguarda questo particolare tipo di assegno, stabilendo che in determinati casi il sussidio può essere negato. Una decisione che non solo fa discutere, ma rischia anche di aprire la strada a nuovi scenari poco rassicuranti per migliaia di famiglie italiane.
La pensione di reversibilità, lo ricordiamo, è quel trattamento che spetta ai familiari superstiti – generalmente coniuge e figli – alla morte del pensionato o del lavoratore assicurato. Fino a ieri la reversibilità era considerata quasi intoccabile, una garanzia di continuità economica in momenti di fragilità. Ma la recente pronuncia ribalta questo scenario, introducendo un principio che potrebbe cambiare le regole del gioco.
La Suprema Corte ha ritenuto legittimo l’intervento dell’INPS in una controversia legata al cumulo tra redditi da lavoro e pensione di reversibilità. In pratica, quando il superstite percepisce un reddito superiore a determinate soglie, l’assegno non solo può essere ridotto, ma persino revocato. È un’interpretazione rigorosa della normativa vigente, che punta a contenere la spesa pubblica ma che lascia scoperti proprio coloro che, in teoria, avrebbero più bisogno di tutele.
Si tratta di un segnale forte: lo Stato sembra dire che il sostegno economico non può diventare un “doppio beneficio” per chi già dispone di redditi considerevoli. Tuttavia, la definizione di “considerevoli” resta controversa: basta superare determinate fasce per subire tagli del 25%, del 40% o addirittura del 50%. E in casi estremi, come sottolineato dai giudici della Cassazione, si può arrivare al diniego completo.
La questione si inserisce in un momento delicato. All’inizio del 2025, le pensioni sono state rivalutate dello 0,8%: un aumento quasi simbolico, che si è tradotto in pochi euro al mese. Una boccata d’aria troppo leggera per contrastare rincari e inflazione, lasciando molti pensionati insoddisfatti. Ma il 2026 si preannuncia diverso: il tasso di rivalutazione stimato all’1,7% promette incrementi più tangibili, anche per le pensioni di reversibilità. Un miglioramento che, però, rischia di restare solo sulla carta per chi si vedrà ridurre o addirittura togliere l’assegno a causa delle nuove interpretazioni restrittive. In questo contesto, la sentenza della Cassazione appare come una doccia fredda.
La partita, in ogni caso, non è ancora chiusa. Si parla già di possibili ricorsi alla Corte Costituzionale e di un intervento politico per chiarire i limiti di queste decurtazioni. Perché il confine tra sostenibilità dei conti pubblici e giustizia sociale resta sottilissimo. Di certo, però, la pensione di reversibilità non è più il “porto sicuro” di un tempo. La decisione della Cassazione apre un precedente e mette tutti in allerta: chi oggi percepisce quell’assegno non può più darlo per scontato.
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